Resto
appoggiato alla parete a sbirciare tra le tende della finestra ma non
è che ci sia poi tanto da vedere. Un anziano, anzi no, un vecchio ha
gettato la spazzatura nel cassonetto infischiandosene degli orari
consentiti e si allontana a passo incerto. Incrocia un ragazzino in
divisa da basket con delle cuffie enormi che gli incorniciano il
cranio. Ha un'espressione concentrata, come se dovesse imparare a
memoria la canzone che sta ascoltando, mentre strattona il cane che
tiene al guinzaglio, una grossa bestia dal pelo biondo. Non sono mai
stato capace di identificare le razze canine, ad eccezione di un
paio. Come gli alberi. Riconosco i cipressi. E i limoni, ma solo se
hanno il frutto.
Quindi
resto appoggiato alla parete con la testa voltata verso i vetri come
se stessi ancora guardando fuori ma in realtà, di sottecchi, guardo
lei.
Seduta,
la schiena contro la testata del letto, la gamba nuda distesa sopra
le lenzuola ingarbugliate, l'altra raccolta contro il corpo. La
maglietta sformata le scende fino al grembo. Mi chiedo se si sia
rimessa le mutandine. Una ciocca color miele le sfiora una guancia e
si arriccia a un angolo della bocca, la sposta con un brusco
movimento del capo ogni volta che porta la sigaretta alle labbra. Con
l'altra mano regge il telefono, non smette di fissarlo e ogni tanto
emette una breve risata che disegna nell'aria una nuvoletta di fumo.
Quando
penso che stia per alzare gli occhi dallo schermo distolgo lo sguardo
per non farmi sorprendere e torno a guardare in strada per qualche istante.
Ho
un gomitolo nella pancia. Lo sento ingarbugliarsi sempre più ogni
secondo che passo a guardarla. Mi tira da una parte, vorrebbe farmi
aprire la finestra per fare entrare un po' d'aria, qui si soffoca, o
magari farmi saltare giù. Non mi farei niente, anche se siamo al
secondo piano. Atterrerei in piedi e comincerei a correre. Ma
all'altro capo della matassa nella mia pancia c'è un'ancora che si è
incagliata da qualche parte e non riesco a muovermi e non voglio
muovermi.
Vaffanculo,
odio tutto questo.
Adesso
le chiedo cosa sta guardando su quel cazzo di telefono. Adesso le
canto una canzone sperando che non la conosca. Adesso dico il suo
nome. Adesso le racconto quella della senatrice e del salumiere.
Adesso cito Camus. O Rino Gaetano. Adesso mi metto a piangere
disperatamente come quella volta in cui mio cugino scoppiò il mio
Tango nuovo. Adesso le chiedo se ha mai visto Irma la dolce oppure le
chiedo di sposarmi. Adesso le dico quanto mi sta sul cazzo.
Adesso
dico il suo nome.
Alza
gli occhi, mi ha beccato. Sorride mentre si allunga per spegnere la
sigaretta in un piattino sul comodino. La maglietta si alza, ho la
mia risposta. Schiaccia il mozzicone poi torna a guardarmi.
Allunga
una mano nella mia direzione. Quindi la chiude a pugno. Non capisco.
Il
suo dito medio scatta come una lama di un coltello a serramanico.
Mi
mostra i denti in una risata silenziosa.
-
Ti odio.