Lei lo osservava, scostando appena le tende con due dita. Avrebbe voluto aprire la finestra e domandargli urlando che diavolo stesse guardando, perché si comportava sempre come uno stupido pazzo, non si rendeva conto di quello che avrebbe pensato la gente vedendolo lì, impalato, a fissare il vuoto?
Invece si accese una sigaretta e tornò in cucina, per controllare la cottura delle cotolette di pollo. Mentre sciacquava le foglie di lattuga, sentì la fame aggredirle lo stomaco con ferocia. Dio, come avrebbe voluto un bel piatto di pasta al forno, quella che la nonna aveva tramandato a sua madre e nella cui creazione si era cimentata anche lei, sempre con risultati inferiori nonostante seguisse alla lettera la ricetta di famiglia, fino a riprodurre scrupolosamente ogni gesto, ogni passaggio, perfino ogni tic della madre, fino a diventarne l’esatta copia ─ cosa che un tempo l’avrebbe fatta inorridire ─ senza essere mai soddisfatta. Forse, come le aveva detto lui una volta scherzando, l’ingrediente mancante era… bah, stronzate.
Tutto questo comunque era prima. Prima della dieta.
Andò in camera da letto e si guardò nel grande specchio dell’armadio. Ormai lo faceva più volte al giorno, quasi ossessivamente, cercando di scorgere nella sua figura appesantita qualche cambiamento, anche minimo. Cercava di riconoscere la ventenne che andava a correre regolarmente tre volte a settimana, che mangiava qualsiasi cosa senza mettere su un filo di grasso per l’invidia delle sue amiche. La ragazzina che in spiaggia faceva girare teste da una parte all’altra come segnavento in balia dello scirocco.
Era proprio lei?
Quanto avrebbe voluto affondare i piedi nella sabbia compatta e bagnata, correre su quella spiaggia senza fermarsi mai, rinchiusa in una bolla di vetro che paralizzasse il tempo.
Forse avrebbe ripreso a fare un po’ di moto. Poteva ancora farcela, si diceva, strizzando gli occhi dietro il velo di fumo.
Nell’androne incrociò la signora del quarto piano che usciva per portare a spasso il cane. La salutò e lei rispose cordialmente, con un gran sorriso, come sua abitudine. Guardando nello specchio accanto all’ascensore poté spiarne le forme rotonde stritolate dalla tuta elasticizzata, mentre la donna raggiungeva a passo spedito il portone. Era da un po’ che non fantasticava su di lei. Di solito lo facevano proprio nell’ascensore, sotto gli occhi del cagnetto riccioluto.
L’ascensore era un buon posto. Lì l’aveva fatto anche con la biondina del piano terra e con la ragazza che consegnava le pizze. Una volta con tutte due insieme.
Ma il posto migliore era in ufficio. Ne aveva fatto di tutti i colori con alcune colleghe, molte sue clienti e con ognuna delle segretarie che si erano succedute nel corso degli anni, a parte una su cui Madre Natura si era perfidamente accanita. Cosa avrebbe dato per averlo fatto realmente almeno una volta con una di loro. Provare a buttarsi. Magari sarebbe successo davvero prima o poi. Ma se fosse accaduto probabilmente non sarebbe stato all’altezza delle sue fantasie. Niente lo sarebbe stato. Nelle fantasie non c’erano tempi morti né imbarazzi, non c’era sudore, niente odori, tutto era morbido e pulito, comodo, tutte erano felici di farlo felice.
Si accorse che l’ascensore era fermo al suo piano.
Sentì girare la chiave nella porta d’ingresso mentre schiacciava il mozzicone di sigaretta nel posacenere. Poi, girando la manopola del fornello mentre con l’altra mano afferrava il manico della padella, si perse. Per alcuni lunghissimi secondi non fu più lei e non fu più lì.
Era in una luminosa cucina di una casa vicino al mare che assomigliava molto a quella di una sua amica d’infanzia, e fissava un piatto pieno di fette di pane con olio e pomodori freschi, mentre da un’altra stanza delle persone che sentiva di conoscere parlavano e parlavano, le loro voci s’intrecciavano attorno a lei come nastri di seta, e parlavano, forse anche di lei. Conosceva il sapore di quel pane, conosceva quel sole che rimbalzava sulla cappa della cucina, quelle voci, conosceva tutto tranne sé stessa.
Durò poco, giusto lo spazio di poche righe, eppure fu come essere rinchiusa in una bolla di vetro che paralizzasse il tempo.
E quando i lunghissimi secondi finirono ce ne volle qualcun altro per tornare a capire che quella mano poggiata sulla manopola del gas era la sua e che fuori era buio già da un pezzo.
Richiuse la porta, appese il soprabito e andò in camera da letto. Sfilandosi le scarpe udì provenire dalla cucina un frastuono metallico di pentole che si urtavano e cadevano seguite da un’imprecazione. Pensò di chiedere se fosse tutto a posto ma non lo fece. Dopo essersi tolto la cravatta e sbottonato la camicia, si lasciò cadere sul materasso e allargò le braccia, come faceva da bambino quando si gettava sulla neve fresca. Avrebbe voluto restare così, a disegnare angeli invisibili sul copriletto, chiudere gli occhi e guardare la neve cadere.
Invece si alzò, si infilò le pantofole e andò in salotto.
Risistemò le pentole nello scaffale e chiuse lo sportello. Terminò di apparecchiare e fissò la tavola, sperando di perdersi ancora. Avrebbe voluto degli altri lunghissimi secondi o anche solo sedersi per un attimo. Invece uscì dalla cucina.
Guardò la testa di lui, abbandonata contro la spalliera del divano, la piazza di pelle lucida che ogni giorno si faceva più grande sfrattando i capelli circostanti su cui si rifletteva la luce del lampadario. La guardò come se potesse scavarla e infilarcisi dentro, ma non ci riuscì.
Si accostò al divano e gli mise una mano sulla spalla.
- Sai cosa vorrei?
Pane e pomodoro, una decappottabile, la neve, il bastardino che avevo alle medie, caramelle mou, un libro che non finisca, correre sulla spiaggia, una ¬figlia, sentire le amiche dell’Università, andare a Cuba, la biondina del piano terra, ballare, chiedere scusa a mio padre, una carta da parati a fiori, il senso dell’umorismo, un jeans, John Lennon vivo, volare in deltaplano, una vasca da bagno, avergli chiesto come si chiamava, sfondare la tv, dormire bene, raccogliere funghi, due ginocchia nuove, ricordare tutto, dimenticare tutto, ridere fino a stare male.
- Qualcosa da bere. – disse invece.
Il ragazzino sentì le voci in salotto e mise le cuffie. Cliccò su play e mentre la musica gli riecheggiava dentro tornò a leggere il messaggio sullo schermo.
“Cosa vorresti con tutto te stesso?”
Il ragazzo guardò il buio fuori dalla finestra. Decise che questa volta non aveva bisogno di buttar giù frasi ad effetto o di mostrarsi brillante.
Sapeva la risposta e gli bastò scriverla.
(Fine)