25/02/08

Auguri terremoto!


Quest'anno ricorre il centenario del terremoto che rase al suolo Messina o, più in generale, dall'ultima volta che in città è successo qualcosa. È una ricorrenza così importante che tremo dall'emozione. Spero sia l'emozione.
La mia professoressa di scienze al liceo ci ricordava frequentemente che è solo questione di tempo prima che un altro violento terremoto scuota lo Stretto. Niente se o forse, nessun dubbio. Allora sì che ci si divertiva a scuola, non come adesso, con queste professoresse che si accoppiano selvaggiamente con gli alunni. Mentre quegli stupidi palpano, strizzano, sbattono, io sto con l'orecchio appiccicato al pavimento pronto a cogliere ogni minimo movimento. La signora del piano di sotto sta guardando "Tempesta d'amore".
Alla luce di quest'ineluttabilità sismica spero che si decidano e costruiscano a tempo di record il Ponte sullo Stretto. Sai che delusione vederlo crollare quando ancora non è completo...
Che poi a vederla, questa città, sembra che non sia mai stata ricostruita. Le strade hanno buche così larghe che caderci dentro è un po' come fare sesso con la Arcuri, ma più doloroso. In nessun'altra parte d'Italia ho visto strade in queste condizioni. Immaginiamo che debba caderci dentro un ragazzino. È giusto che perda la verginità così? Con la Arcuri? Come farà poi, per il resto della vita, ad accontentarsi di strade normali e in buone condizioni? Solo l'unico a preoccuparsi? Eh dottore? La medicina? È ora della medicina? Sì, è buona la medicina.
Non è bello vivere in una zona tellurica, sempre sul chi vive, con i nervi a fior di pelle.
Non è per cattiveria che in spiaggia distruggo i castelli di sabbia dei bambini, ma per prepararli psicologicamente. È quello che dico ai loro genitori. Non tutti capiscono. Le aste degli ombrelloni sono più appuntite di quanto sembri. Fanno male.
A volte mi chiedo cosa farei se dovessi scampare al terremoto mentre il resto della città fosse distrutta. Mi chiedo che farei, dove andrei, cosa potrei saccheggiare. Penso che lo sciacallaggio sia più difficile di quanto sembri. Riuscire a pensare, a concentrarsi su un obiettivo, in mezzo a tutta quella gente che urla di dolore e chiede aiuto. Io ho bisogno di quiete per saccheggiare.
L'idea di un terremoto fortemente distruttivo in un certo senso è eccitante. Certo, una grande tragedia, ma guardiamo per un attimo il lato positivo, ok? Tabula rasa, ripartire da zero, una seconda chance per noi stupidi messinesi di creare qualcosa di buono, di bello, per elevarci ricostruendo sul nostro dolore, per riassurgere agli antichi splendori e tornare in serie A.
Una seconda possibilità. Da sprecare.

20/02/08

Rock Will Save The World #04 - TEENAGE KICKS

Se avete impegni nelle prossime ore, nei prossimi giorni, se avete bisogno di tutte le vostre facoltà mentali, tutta la vostra concentrazione, non cliccate play. Vi avverto, non fatelo. Ho fatto l'errore di ascoltare "Teenage kicks" tre giorni fa e da quel momento non c'è spazio per nient'altro. Per fortuna sono uno sfaccendato.
"Teenage kicks" di The Undertones è la canzone catchy per eccellenza. Nata sull'onda del punk per mano di cinque ragazzetti di Derry, che nell'inferno dell'Irlanda degli anni 70 trovarono una via di fuga nella musica seguendo la strada spensierata dei Ramones più che i furori nichilistici o gli ardori rivoluzionari di altre band britanniche, è da molti considerata il singolo perfetto. Due accordi, ritmo costante e immutabile, verso, ritornello, verso, ritornello e via con un altro giro.
La semplicità e la freschezza di questo brano conquistarono il mitico dj John Peel, il cui contributo fu fondamentale per il successo del brano e del gruppo. Rimase la sua canzone preferita fino alla sua scomparsa, e anche oltre, visto che "Teenage kicks" fu suonata al funerale di Peel e che il verso iniziale, "Are teenage dreams so hard to beat" è inciso sulla sua lapide.
Non c'è praticamente gruppo rock che non abbia ripreso e omaggiato "Teenage kicks". Ma l'originale, come spesso accade, è inavvicinabile.

Rock è un ragazzino che si chiude in bagno, pensando a lei.

14/02/08

From A to Y


Brian K. Vaughan è il miglior giovane sceneggiatore degli ultimi anni.
Massimo Carnevale è il miglior cover artist.
Pia Guerra è una brava disegnatrice.
Y: The Last Man è una delle migliori serie degli ultimi anni.
Il numero 60 è il miglior finale. Fa venir voglia di ricominciare tutto daccapo solo per poterlo raggiungere e divorare ancora una volta.

08/02/08

Death Race


Quel che segue è un raccontino pensato per la Writers Death Race ideata da Roberto Recchioni, a cui però non mi sono iscritto in tempo.
Scritto di getto, lascia il tempo che trova. Lo riciclo qua.

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Dicono che ti passa tutta davanti, in un attimo. Il nastro della vita riavvolto dinanzi agli occhi più rapido del pensiero eppure distinguibile in ogni fotogramma.
Norm si aspetta che lo spettacolo cominci da un momento all’altro, l’ha capito nell’istante in cui ha sentito la gomma posteriore destra esplodere e la notte ha cominciato a roteare intorno a lui in un vortice di stelle filanti, più veloce della luce, delle luci dei lampioni e delle insegne dei negozi. Gli par di vedere i fanali posteriori dell’auto di Ira sparire dietro l’angolo con una traiettoria perfetta, un gioco di prestigio, ma sa che è impossibile. Non può distinguere alcunché, rotea su se stesso così velocemente che il mondo là fuori è solo una macchia, un’unica immensa macchia che non sta ferma un attimo.
Gli sembra di sentire gli organi interni sbattere da ogni parte e mischiarsi, il suo corpo è un mucchio di gelatina in balia di un terremoto. Lo schianto è inevitabile e vicino, eppure sa che c’è ancora tempo perché la visione non è iniziata. Il suo primo ricordo, un cane randagio che corre sulla spiaggia e abbaia alle onde, un cane senza nome che lotta e gioca con l’oceano in un mattina di tanto tempo prima, alla spiaggia, quando sua madre e suo padre non avevano ancora iniziato una guerra che non avrebbe avuto vincitori, quel ricordo non è ancora apparso sullo schermo. Per questo Norm sa di avere ancora tempo, il tempo di chiedersi che diavolo sta succedendo? ho sbagliato qualcosa? ho urtato qualcosa? è la mia ultima corsa?
Sul ponte era in testa e l’auto di Ira tentava disperatamente e senza successo di evadere dal suo specchietto. Sorrideva immaginando Ira teso dietro il volante, le vene del collo come corde di violino pronte a saltare, Ira che digrignava i denti, che imprecava, condannato a perdere per l’ennesima volta. Le gomme avevano urlato quando alla fine del ponte si era buttato a destra, giù per il lungomare, e lo avevano fatto di nuovo quando, voltando a sinistra, l’auto era sgusciata tra i palazzi come un agile gatto tra le gambe di una sedia. Le luci dell’auto di Ira erano due capocchie di spillo nello specchietto.
La città sembrava deserta, tutto quel che riusciva a vedere era la strada e quel che sentiva era il motore che gli urlava tutto il suo amore. La sua auto era una lama rossa che squarciava il sonno della città. Poi era arrivato quell’incrocio, i piedi si erano mossi leggeri come sempre nella loro danza, le sue mani avevano accompagnato con decisione il volante verso destra, lo scenario oltre il parabrezza era cambiato rapido come una diapositiva e bum.
Adesso è su una giostra impazzita. È una trottola.
Si chiede se ha sbagliato qualcosa, si chiede se morirà, si chiede se perderà, ed ha il tempo di accorgersi che è l’idea di perdere a spaventarlo più di ogni altra cosa.
Poi lo vede.
C’è un cane senza padrone che corre sulla spiaggia. Abbaia alle onde che provano a prenderlo, a travolgerlo, ma lui è troppo veloce per loro.

03/02/08

Cosa Vorrei #2

Lei lo osservava, scostando appena le tende con due dita. Avrebbe voluto aprire la finestra e domandargli urlando che diavolo stesse guardando, perché si comportava sempre come uno stupido pazzo, non si rendeva conto di quello che avrebbe pensato la gente vedendolo lì, impalato, a fissare il vuoto?
Invece si accese una sigaretta e tornò in cucina, per controllare la cottura delle cotolette di pollo. Mentre sciacquava le foglie di lattuga, sentì la fame aggredirle lo stomaco con ferocia. Dio, come avrebbe voluto un bel piatto di pasta al forno, quella che la nonna aveva tramandato a sua madre e nella cui creazione si era cimentata anche lei, sempre con risultati inferiori nonostante seguisse alla lettera la ricetta di famiglia, fino a riprodurre scrupolosamente ogni gesto, ogni passaggio, perfino ogni tic della madre, fino a diventarne l’esatta copia ─ cosa che un tempo l’avrebbe fatta inorridire ─ senza essere mai soddisfatta. Forse, come le aveva detto lui una volta scherzando, l’ingrediente mancante era… bah, stronzate.
Tutto questo comunque era prima. Prima della dieta.
Andò in camera da letto e si guardò nel grande specchio dell’armadio. Ormai lo faceva più volte al giorno, quasi ossessivamente, cercando di scorgere nella sua figura appesantita qualche cambiamento, anche minimo. Cercava di riconoscere la ventenne che andava a correre regolarmente tre volte a settimana, che mangiava qualsiasi cosa senza mettere su un filo di grasso per l’invidia delle sue amiche. La ragazzina che in spiaggia faceva girare teste da una parte all’altra come segnavento in balia dello scirocco.
Era proprio lei?
Quanto avrebbe voluto affondare i piedi nella sabbia compatta e bagnata, correre su quella spiaggia senza fermarsi mai, rinchiusa in una bolla di vetro che paralizzasse il tempo.
Forse avrebbe ripreso a fare un po’ di moto. Poteva ancora farcela, si diceva, strizzando gli occhi dietro il velo di fumo.

Nell’androne incrociò la signora del quarto piano che usciva per portare a spasso il cane. La salutò e lei rispose cordialmente, con un gran sorriso, come sua abitudine. Guardando nello specchio accanto all’ascensore poté spiarne le forme rotonde stritolate dalla tuta elasticizzata, mentre la donna raggiungeva a passo spedito il portone. Era da un po’ che non fantasticava su di lei. Di solito lo facevano proprio nell’ascensore, sotto gli occhi del cagnetto riccioluto.
L’ascensore era un buon posto. Lì l’aveva fatto anche con la biondina del piano terra e con la ragazza che consegnava le pizze. Una volta con tutte due insieme.
Ma il posto migliore era in ufficio. Ne aveva fatto di tutti i colori con alcune colleghe, molte sue clienti e con ognuna delle segretarie che si erano succedute nel corso degli anni, a parte una su cui Madre Natura si era perfidamente accanita. Cosa avrebbe dato per averlo fatto realmente almeno una volta con una di loro. Provare a buttarsi. Magari sarebbe successo davvero prima o poi. Ma se fosse accaduto probabilmente non sarebbe stato all’altezza delle sue fantasie. Niente lo sarebbe stato. Nelle fantasie non c’erano tempi morti né imbarazzi, non c’era sudore, niente odori, tutto era morbido e pulito, comodo, tutte erano felici di farlo felice.
Si accorse che l’ascensore era fermo al suo piano.

Sentì girare la chiave nella porta d’ingresso mentre schiacciava il mozzicone di sigaretta nel posacenere. Poi, girando la manopola del fornello mentre con l’altra mano afferrava il manico della padella, si perse. Per alcuni lunghissimi secondi non fu più lei e non fu più lì.
Era in una luminosa cucina di una casa vicino al mare che assomigliava molto a quella di una sua amica d’infanzia, e fissava un piatto pieno di fette di pane con olio e pomodori freschi, mentre da un’altra stanza delle persone che sentiva di conoscere parlavano e parlavano, le loro voci s’intrecciavano attorno a lei come nastri di seta, e parlavano, forse anche di lei. Conosceva il sapore di quel pane, conosceva quel sole che rimbalzava sulla cappa della cucina, quelle voci, conosceva tutto tranne sé stessa.
Durò poco, giusto lo spazio di poche righe, eppure fu come essere rinchiusa in una bolla di vetro che paralizzasse il tempo.
E quando i lunghissimi secondi finirono ce ne volle qualcun altro per tornare a capire che quella mano poggiata sulla manopola del gas era la sua e che fuori era buio già da un pezzo.

Richiuse la porta, appese il soprabito e andò in camera da letto. Sfilandosi le scarpe udì provenire dalla cucina un frastuono metallico di pentole che si urtavano e cadevano seguite da un’imprecazione. Pensò di chiedere se fosse tutto a posto ma non lo fece. Dopo essersi tolto la cravatta e sbottonato la camicia, si lasciò cadere sul materasso e allargò le braccia, come faceva da bambino quando si gettava sulla neve fresca. Avrebbe voluto restare così, a disegnare angeli invisibili sul copriletto, chiudere gli occhi e guardare la neve cadere.
Invece si alzò, si infilò le pantofole e andò in salotto.

Risistemò le pentole nello scaffale e chiuse lo sportello. Terminò di apparecchiare e fissò la tavola, sperando di perdersi ancora. Avrebbe voluto degli altri lunghissimi secondi o anche solo sedersi per un attimo. Invece uscì dalla cucina.
Guardò la testa di lui, abbandonata contro la spalliera del divano, la piazza di pelle lucida che ogni giorno si faceva più grande sfrattando i capelli circostanti su cui si rifletteva la luce del lampadario. La guardò come se potesse scavarla e infilarcisi dentro, ma non ci riuscì.
Si accostò al divano e gli mise una mano sulla spalla.

- Sai cosa vorrei?

Pane e pomodoro, una decappottabile, la neve, il bastardino che avevo alle medie, caramelle mou, un libro che non finisca, correre sulla spiaggia, una ¬figlia, sentire le amiche dell’Università, andare a Cuba, la biondina del piano terra, ballare, chiedere scusa a mio padre, una carta da parati a fiori, il senso dell’umorismo, un jeans, John Lennon vivo, volare in deltaplano, una vasca da bagno, avergli chiesto come si chiamava, sfondare la tv, dormire bene, raccogliere funghi, due ginocchia nuove, ricordare tutto, dimenticare tutto, ridere fino a stare male.

- Qualcosa da bere. – disse invece.

Il ragazzino sentì le voci in salotto e mise le cuffie. Cliccò su play e mentre la musica gli riecheggiava dentro tornò a leggere il messaggio sullo schermo.
“Cosa vorresti con tutto te stesso?”
Il ragazzo guardò il buio fuori dalla finestra. Decise che questa volta non aveva bisogno di buttar giù frasi ad effetto o di mostrarsi brillante.
Sapeva la risposta e gli bastò scriverla.

(Fine)