08/02/08

Death Race


Quel che segue è un raccontino pensato per la Writers Death Race ideata da Roberto Recchioni, a cui però non mi sono iscritto in tempo.
Scritto di getto, lascia il tempo che trova. Lo riciclo qua.

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Dicono che ti passa tutta davanti, in un attimo. Il nastro della vita riavvolto dinanzi agli occhi più rapido del pensiero eppure distinguibile in ogni fotogramma.
Norm si aspetta che lo spettacolo cominci da un momento all’altro, l’ha capito nell’istante in cui ha sentito la gomma posteriore destra esplodere e la notte ha cominciato a roteare intorno a lui in un vortice di stelle filanti, più veloce della luce, delle luci dei lampioni e delle insegne dei negozi. Gli par di vedere i fanali posteriori dell’auto di Ira sparire dietro l’angolo con una traiettoria perfetta, un gioco di prestigio, ma sa che è impossibile. Non può distinguere alcunché, rotea su se stesso così velocemente che il mondo là fuori è solo una macchia, un’unica immensa macchia che non sta ferma un attimo.
Gli sembra di sentire gli organi interni sbattere da ogni parte e mischiarsi, il suo corpo è un mucchio di gelatina in balia di un terremoto. Lo schianto è inevitabile e vicino, eppure sa che c’è ancora tempo perché la visione non è iniziata. Il suo primo ricordo, un cane randagio che corre sulla spiaggia e abbaia alle onde, un cane senza nome che lotta e gioca con l’oceano in un mattina di tanto tempo prima, alla spiaggia, quando sua madre e suo padre non avevano ancora iniziato una guerra che non avrebbe avuto vincitori, quel ricordo non è ancora apparso sullo schermo. Per questo Norm sa di avere ancora tempo, il tempo di chiedersi che diavolo sta succedendo? ho sbagliato qualcosa? ho urtato qualcosa? è la mia ultima corsa?
Sul ponte era in testa e l’auto di Ira tentava disperatamente e senza successo di evadere dal suo specchietto. Sorrideva immaginando Ira teso dietro il volante, le vene del collo come corde di violino pronte a saltare, Ira che digrignava i denti, che imprecava, condannato a perdere per l’ennesima volta. Le gomme avevano urlato quando alla fine del ponte si era buttato a destra, giù per il lungomare, e lo avevano fatto di nuovo quando, voltando a sinistra, l’auto era sgusciata tra i palazzi come un agile gatto tra le gambe di una sedia. Le luci dell’auto di Ira erano due capocchie di spillo nello specchietto.
La città sembrava deserta, tutto quel che riusciva a vedere era la strada e quel che sentiva era il motore che gli urlava tutto il suo amore. La sua auto era una lama rossa che squarciava il sonno della città. Poi era arrivato quell’incrocio, i piedi si erano mossi leggeri come sempre nella loro danza, le sue mani avevano accompagnato con decisione il volante verso destra, lo scenario oltre il parabrezza era cambiato rapido come una diapositiva e bum.
Adesso è su una giostra impazzita. È una trottola.
Si chiede se ha sbagliato qualcosa, si chiede se morirà, si chiede se perderà, ed ha il tempo di accorgersi che è l’idea di perdere a spaventarlo più di ogni altra cosa.
Poi lo vede.
C’è un cane senza padrone che corre sulla spiaggia. Abbaia alle onde che provano a prenderlo, a travolgerlo, ma lui è troppo veloce per loro.

3 commenti:

gb ha detto...

dovresti riciclare più spesso queste robe

Susanna Raule ha detto...

Mi è davvero TANTO piaciuto. Più del precedente.
Bel finale semi-circolare :)

madmac ha detto...

grazie, sapevo che questo avrebbe incontrato maggiormente i tuoi gusti :D